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Si possono avere due lavori?

  • Lavoro

Fatto salvo l’obbligo previsto dall’articolo 2105 del  codice civile, il datore  di  lavoro  non  può  vietare  al  lavoratore  lo svolgimento di altra attività lavorativa in orario al di fuori della programmazione dell’attività lavorativa concordata,  nè  per  tale motivo riservargli un trattamento meno favorevole

Decreto Trasparenza

Il recente decreto trasparenza ci consente di provare a dare risposta alla domanda: si possono avere due lavori? che di questi tempi è molto frequente.

In maniera almeno apparente il decreto trasparenza sembra rispondere affermativamente, in lina con quanto la giurisprudenza abbia sempre sostenuto. In tal senso, su tutte, basti osservare come sia

“nulla, con conseguente illegittimità del licenziamento intimato in ragione della sua violazione, la clausola del regolamento aziendale che disponga l’incompatibilità fra il rapporto di lavoro (anche a tempo parziale) intercorrente con l’azienda e ogni altra occupazione o attività, limitando in tal modo il diritto del lavoratore in regime di part-time di poter svolgere un’altra attività lavorativa”

(Cassazione n°13196 del 2017)

Se ne dovrebbe dunque derivare, da una prima lettura, un principio di ragionevole buon senso consistente nell’impossibilità di un soggetto privato (datore di lavoro) di poter inibire o vietare la conclusione di un altro contratto o l’esecuzione di altra obbligazione sinallagmatica da parte di un proprio lavoratore, fermo restando, chiaramente, il rispetto dell’art 2105 c.c. il quale, giova precisarlo, disciplina sia l’obbligo di fedeltà che il divieto di non concorrenza. Insomma si, il doppio lavoro è possibile e si possono avere due lavori.

La lettura più approfondita di tale disposto però lascia intravedere una prima considerazione critica: ad averso, la possibilità di porre il divieto all’esecuzione di altra prestazione appare ammissibile all’interno della programmazione dell’orario lavorativo “concordata”. Nel ricordare come il d.lgs 104/2022 definisce all’art 2 ”programmazione del lavoro” l’identificazione dei giorni ed ore di inizio e fine dell’orario, il divieto di esecuzione di diversa prestazione sussiste solo se tale programmazione risulti concordata (frutto di accordo) tra le parti.

Ne consegue che:

1) da un punto di vista pragmatico, appare evidente come la più parte delle programmazioni orarie siano frutto dell’esercizio del potere direttivo (unilaterale) del datore di lavoro, lungi dall’essere oggetto di pattuizione con il lavoratore (chiaramente nell’ambito del tempo pieno);

2) tale norma, inserita all’interno del conteso di cui al c.d. decreto trasparenza, deve evidentemente essere interpretata nel senso che l’informazione concessa al neo lavoratore (principalmente) in ordine al “quando” la sua prestazione sarà resa, debba essere più dettagliata e chiara possibile, giacchè al di fuori di tali informazioni sarà, per lo stesso, astrattamente possibile contrarre nuovi e/o contemporanei rapporti di lavoro subordinato.

Il corollario conseguente a tale ultima precisazione riguarda dunque la qualità delle informazioni offerte ai neo lavoratori. Una informativa scarna di elementi qualificanti la programmazione oraria, imprecisa o non esaustiva non dovrebbe consentire al datore di lavoro la possibilità di porre il proprio veto sulle nuove opportunità lavorative dei propri collaboratori.

Il secondo comma del citato articolo 8 introduce la facoltà, gravosa e da comprendersi appieno, da parte del datore di lavoro (si suppone il “primo” soggetto contraente rispetto al lavoratore) di poter “limitare” o “negare” al lavoratore lo svolgimento di un diverso rapporto di lavoro, qualora sussista una delle seguenti condizioni:

a) “un pregiudizio per la salute e la sicurezza, ivi compreso il rispetto della normativa in materia di durata dei riposi. In sintesi, si è data attuazione normativa a quanto già disposto, con circolare n° 8 del 2005, dal Ministero del Lavoro (ribadito in occasione della risposta all’interpello n°4581/2006) in relazione al rispetto dei riposi giornalieri e settimanali.

b) “la necessità di garantire l’integrità del servizio pubblico”. Circostanza che chiaramente dovrà essere meglio argomentata o compresa, qualificando in special modo cosa possa voler dire “integrità” del ”servizio pubblico”.

c) Ciò che davvero assume rilevanza è quanto disposto dalla lettera c) della norma in trattazione ovvero “il caso in cui la diversa e ulteriore attività lavorativa sia in conflitto d’interessi con la principale, pur non violando il dovere di fedeltà di cui all’articolo 2105 del codice civile”

La lettura di tale previsione appare spietata: aldilà che vi sia una violazione o meno del dovere di fedeltà (e solo di quello, non della concorrenza interna ex art 2105 c.c.) sarebbe sufficiente un “conflitto d’interessi con la principale” (principale non significa la prima in esecuzione temporale, ma la preminente) per consentire ad una impresa o datore di lavoro di inibire o limitare nuove opportunità lavorative.

Chiaramente la norma in esame risulta lacunosa di una definizione di “conflitto di interessi” la quale potrebbe essere desumibile dalle direttive Anac (working paper 3 – 17 settembre 2019) che evidenziano sussistente il conflitto quando il nuovo lavoro comporti, anche potenzialmente, interessi in contrasto con quelli del datore di lavoro, di qualunque tipo: di natura finanziaria, economica, etc.

La giurisprudenza in tema di dovere di fedeltà, appare giusto ricordarlo, risulta già di per sé rigorosa.

Il dovere di fedeltà non deve necessariamente tradursi in atti di concorrenza sleale ma, a titolo esemplificativo, “la violazione del dovere di fedeltà a carico del dipendente (che si sostanzia nell’obbligo del lavoratore di astenersi da attività contrarie agli interessi del datore di lavoro) riguarda la concorrenza che il lavoratore potrebbe svolgere non dopo la cessazione del rapporto, nei confronti del precedente datore di lavoro, ma quella che egli abbia svolto illecitamente nel corso del rapporto di lavoro, attraverso lo sfruttamento di conoscenze tecniche e commerciali acquisite per effetto del rapporto stesso” (Corte appello Sassari sez. lav., 10/11/2021, n.186) o ancora “In tema di lavoro subordinato, il dovere di fedeltà imposto dall’art. 2105 c.c. si sostanzia, quindi, nell’obbligo di un leale comportamento del lavoratore nei confronti del datore di lavoro ed a concretizzare la violazione di tale dovere basta che il comportamento sia tale da scuotere e far venire meno la fiducia del datore di lavoro; a tal fine è sufficiente un pregiudizio soltanto potenziale e non anche effettivo. In tali ipotesi, infatti, anche condotte solo idonee astrattamente ad arrecare un pregiudizio al datore di lavoro possono porre in discussione il vincolo fiduciario riposto nel prestatore di lavoro” (Corte appello Milano sez. lav., 02/04/2021, n.429).

Insomma il tema del doppio lavoro e della risposta alla domanda se si possono avere due lavori resta complesso ma la risposta si ritiene debba essere affermativa.

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