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Licenziamento per comportamento extralavorativo

Un comportamento extralavorativo, come il diverbio con il superiore gerarchico al di fuori dell’orario lavorativo, può costituire giusta causa di licenziamento?

Secondo la giurisprudenza si, perchè perchè il dipendente deve astenersi da qualsiasi comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale (v. anche questo articolo interessante sull’utilizzo delle chat). Inoltre, il carattere extralavorativo di un comportamento non ne preclude in via generale la sanzionabilità in sede disciplinare, in quanto gli artt. 2104 e 2105 cod. civ., richiamati dalla disposizione dell’art. 2106 cod. civ. relativa alle sanzioni disciplinari, non vanno interpretati restrittivamente e non escludono che il dovere di diligenza del lavoratore subordinato si riferisca anche ai vari doveri strumentali e complementari che concorrono a qualificare il rapporto di lavoro.
La vicenda del licenziamento per comportamento extralavorativo, portata all’attenzione della Cassazione, derivava da una sentenza La Corte di Appello di Trento, che riformando la sentenza di primo grado, riteneva legittimo il licenziamento per giusta causa intimato a un dipendente cui era stata contestata una condotta di insubordinazione, la violazione delle regole di correttezza e buona fede e di avere rivolto minacce a una collega di lavoro ma al di fuori dell’orario di lavoro.

Nello specifico, al termine della giornata lavorativa era sorta una discussione tra il lavoratore e la responsabile amministrativa della società avente ad oggetto la restituzione di una chiavetta per l’uso del distributore del caffè. Il lavoratore aveva chiuso la porta dell’ufficio della collega ed aveva pronunciato la frase «prima o poi, in sede più consona, dovrò farti un discorso», puntandole contro il dito. Solo a seguito dei ripetuti inviti ad uscire dall’ufficio e dopo che la responsabile amministrativa aveva sollevato la cornetta per chiamare l’amministratore, il lavoratore si era deciso a lasciare l’ufficio.

Ad avviso della Corte territoriale, il comportamento tenuto dal lavoratore integrava la violazione degli articoli 2104 e 2105 c.c. e delle regole di condotta dettate sia dal CCNL applicato, che dal Regolamento interno dell’azienda, ai sensi dei quali il licenziamento è comminato al lavoratore che commetta gravi infrazioni alla disciplina e alla diligenza nel luogo di lavoro, anche se la vicenda di fatto riguardava un licenziamento per comportamento extralavorativo. La minaccia verbale era infatti stata accompagnata da un atteggiamento intimidatorio idoneo ad incutere il timore di uno scontro verbale (non necessariamente fisico) fuori dai locali aziendali, tale da turbare la serenità della collega di lavoro, gerarchicamente sovraordinata.La Corte territoriale aveva altresì evidenziato la gravità della condotta sotto il profilo soggettivo, in considerazione del fatto che il dipendente aveva registrato la conversazione, comportamento che rivelava la consapevolezza e l’intensità dello scontro verbale e la volontà di provocarlo per procurarsi una prova di condotta non corretta della collega.

Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per Cassazione il lavoratore. In particolare, con i primi due motivi di ricorso, il lavoratore ha lamentato l’assenza di un rapporto di subordinazione gerarchica tra lui e la responsabile amministrativa della società e, pertanto, la sentenza impugnata avrebbe errato nel ritenere sussistente, nella fattispecie, una condotta di “insubordinazione”. Con il terzo motivo di ricorso, il lavoratore ha inoltre sostenuto che la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere legittima l’applicazione della sanzione espulsiva posto che, nel caso in esame, non si era configurata la fattispecie per la quale il CCNL applicato prevedeva la sanzione espulsiva (“diverbio litigioso, seguito da vie di fatto avvenuto nel recinto dello stabilimento e che rechi grave perturbamento alla vita aziendale”), in quanto lo scontro era stato verbale ed aveva arrecato perturbamento alla sola collega di lavoro (e non alla vita aziendale). La Corte di Cassazione ha ritenuto infondati i suddetti motivi di ricorso. Quanto ai primi due motivi, la Suprema Corte ha evidenziato che «il concetto di “insubordinazione” va determinato anche alla stregua dell’accezione lessicale e del significato del termine nel linguaggio giuridico ed in quello corrente». Infatti, «la nozione di insubordinazione, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale». Inoltre, anche il carattere extralavorativo di un comportamento non ne preclude in via generale la sanzionabilità in sede disciplinare, posto che gli obblighi di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c. si riferiscono anche ai «vari doveri strumentali e complementari che concorrono a qualificare il rapporto di lavoro». Con riferimento, poi, al terzo motivo di ricorso, la Suprema Corte ha rilevato che la condotta posta in essere dal dipendente non poteva considerarsi sussumibile in quella del «mero diverbio tra colleghi senza via di fatto», in quanto nella fattispecie vi era stata una palese minaccia verbale che aveva lasciato presagire alla collega di lavoro il timore di uno scontro, anche se solo verbale, fuori dai locali aziendali. Conclusivamente il ricorso del lavoratore è stato respinto.

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