La vicenda muove dal giudizio di impugnativa del licenziamento promosso da un lavoratore, capo reparto di una grossa catena distributrice, che era stato licenziato per giusta causa dal proprio datore di lavoro in quanto sorpreso in possesso di beni aziendali risultati non pagati. Il lavoratore aveva affermato la mancanza di intenzionalità della propria condotta. Sia il Giudice di primo grado sia la Corte d’Appello accoglievano le ragioni del lavoratore.
Secondo i Giudici del merito, l’istruttoria aveva escluso il dolo del lavoratore nella sottrazione di alcune rondelline metalliche del valore complessivo di euro 2,90, che erano state riposte dallo nella tasca della giacca e non erano state mostrate al momento del pagamento alla cassa.
Anche l’assenza di precedenti disciplinari faceva propendere per la non proporzionalità del recesso intimato.
La sottrazione di beni di modico valore
Lamentando la violazione dell’art. 2119 c.c., il datore di lavoro proponeva ricorso avverso la sentenza d’Appello.
La Cassazione, investita della questione, ha ritenuto che tale ricorso, apparentemente promosso per far valere una violazione di diritto, era in realtà teso ad una diversa ricostruzione dei fatti così come emersi dall’istruttoria e discussi in sede di giudizio di merito ed era quindi inammissibile.
Con la conferma delle sentenze di merito, la Cassazione avalla, di fatto, il principio che il licenziamento per sottrazione di beni di modico valore sia illegittimo, laddove non sia dimostrata dal datore il dolo del prestatore.
Sul punto, il precedente qui in commento rinsalda la tesi, secondo cui non è sufficiente la sottrazione del bene aziendale per fondare il recesso, ma è altrettanto decisiva la prova della condotta intenzionale del lavoratore.
La Cassazione, già con la sentenza del 18 settembre 2014 n. 19684, in linea con il precedente del 25 novembre 1997 n. 11806, aveva affermato che «In tema di licenziamento per giusta causa, la modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all’idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e ad incidere sull’elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro».
Resta, ora, da comprendere come i principi resi dalla Cassazione potranno essere di fatto seguiti dai giudici di merito, alla luce delle recenti riforme legislative.
Alla fattispecie di licenziamento, qui commentata, era ancora applicabile l’art. 18 della Legge n. 300/1970 vigente prima della cd. Riforma Fornero e del cd. Jobs Act. E quindi il giudizio di proporzionalità, come l’indagine sul dolo, erano decisivi tanto quanto la dimostrazione della commissione del fatto materiale per ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro: valutazioni queste che sembrano aver perso rilievo con le novità legislative prima richiamate ai fini dell’ottenimento della reintegra.