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Licenziamento Coronavirus: fermi quelli oggettivi

Licenziamento ai tempi del coronavirus?

Se è oggettivo, fino ad agosto 2020 è vietato (v. anche questo articolo).

Il decreto Cura italia (oggi aggiornato dal decreto dignità) prevede: “A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della Legge 23 luglio 1991, n. 223 è precluso per 5 mesi e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della Legge 15 luglio 1966, n. 604.”
Con la questa norma il governo ha voluto congelare i licenziamenti per motivi economici su tutto il territorio, tentando di tamponare (o, forse, scaricare sui datori di lavoro) l’emergenza Coronavirus in corso.

È una norma che pone dubbi di tenuta costituzionale, trattandosi di un chiaro limite all’esercizio dell’iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost.

Ad ogni modo, ad oggi risultano preclusi i licenziamenti per motivi oggettivi, anche di natura collettiva.
A proposito del divieto di licenziamenti collettivi durante il coronavirus il divieto riguarda: le procedure avviate dopo il 23.2.2020; le procedure definite internamente ma ancora non avviate alla data di entrata in vigore del Decreto. Restano invece escluse le procedure già in corso alla predetta data del 23.2.2020, le quali potranno essere concluse anche in pendenza del divieto in parola.

Per quanto riguarda il divieto di licenziamenti individuali durante l’emergenza Covid la norma prevede che il divieto riguarda tutti i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della Legge 15 luglio 1966, n. 604.
L’art. 3 cit. dispone che il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.

Si tratta, quindi, dei licenziamenti intimati per motivi economici e/o organizzativi.

I destinatari del divieto sono tutti i datori di lavoro (con le eccezioni che vedremo appresso), a prescindere dal numero dei dipendenti occupati.
L’espresso richiamo alla Legge n. 604/1966, però, impone due immediate considerazioni: la prima, è che i Dirigenti sono certamente esclusi da tale divieto, essendo a loro volta esclusi dalle disposizioni della Legge n. 604/1966; la seconda, è che anche i prestatori di lavoro in prova sono esclusi dal medesimo divieto, in virtù della medesima norma.
Vi sono, peraltro, numerose altre fattispecie non ricomprese, tra cu: i lavoratori domestici, per i quali vige il principio della libera recedibilità; i licenziamenti disciplinari, quindi quelli intimati per giusta causa o giustificato motivo soggettivo; i licenziamenti intimati per superamento del periodo di comporto; il recesso intimato all’apprendista al termine del periodo di apprendistato ex art. 2118 C.c.; il licenziamento per raggiungimento dell’età pensionabile.
Ci sono casi però di incertezza. Si pensi ad esempio al licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore.
In tal caso, infatti, la Suprema Corte ritiene che si tratti di fattispecie riconducibile al giustificato motivo oggettivo: cfr. ad es. Cassazione, sez. lav., Sentenza 22/10/2018, n. 26675: “Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo consistente sulla inidoneità del lavoratore deve ritenersi illegittimo qualora non sia stato rispettato l’obbligo datoriale di adibire lo stesso a mansioni compatibili con lo stato sopravvenuto di salute, con la conseguente applicabilità della tutela reintegratoria nella sua forma attenuata, come prevista dall’art. 18 comma 4, l. n. 300 del 1970.”

Pertanto, pure in tal caso, a nostro avviso vige il divieto anche per tale fattispecie.
La norma non disciplina le conseguenze della violazione del divieto di licenziamento ma, volendo ragionare sistematicamente, è che di una norma imperativa la sua violazione darebbe luogo a nullità. Alla nullità del recesso consegue la reintegrazione nel posto di lavoro (e il pagamento delle retribuzioni perse).

Tuttavia, va considerato che secondo quanto previsto dal comma 1, art. 2, D.Lgs. n. 23/2015, “Il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio a norma dell’articolo 15 della Legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto. […]”

Secondo il c.d. Jobs Act, dunque, la sanzione della nullità deve essere espressa, ma il D.L. “Cura Italia” non contiene espressamente tale sanzione: è quindi ipotizzabile una sanzione meramente risarcitoria in tal caso? La risposta è affermativa, anche se ovviamente non ci sono certezze, in assenza di precedenti giurisprudenziali: il dettato normativo (del Jobs Act) è però chiaro ed esclude la reintegra ove la sanzione della nullità non sia espressamente prevista dalla legge. Mentre, per quanto riguarda l’art. 18 St. Lav. (applicabile, come noto, agli assunti ante 7.3.2015), la norma si riferisce più genericamente agli “altri casi di nullità previsti dalla legge”: in tal caso, quindi, siamo in presenza di una nullità c.d. virtuale ed in quanto tale “prevista dalla legge”, seppur implicitamente (non espressa); con la conseguenza che la reintegrazione appare l’unica misura possibile.IL

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