Il corrispettivo del patto di non concorrenza può essere erogato anche in corso del rapporto di lavoro ed esso risulta altresì coerente rispetto alla ragione economico-giuridica del patto. Risponde infatti alla salvaguardia dei contrapposti interessi delle parti il prevedere che l’entità del compenso aumenti all’aumentare della durata del rapporto di lavoro, posto che alla maggiore durata del rapporto di norma corrisponde un maggiore know-how del prestatore di lavoro (e quindi un maggiore interesse aziendale a che questi non operi in concorrenza con l’ex datore di lavoro) oltre che, non di rado, una maggiore difficoltà di ricollocazione del prestatore in settori diversi da quelli in cui il medesimo ha svolto a lungo la propria attività.
Corte Appello Milano se. Lav., 13 settembre 2022, Cons. Rel. Bertoli
Il caso
La questione riguardava una impresa che lamentava la violazione un patto di non concorrenza da parte di un proprio ex-dipendente. Il corrispettivo del patto di non concorrenza nel caso in esame veniva pagato mensilmente durante il rapporto di lavoro ed era anche prevista una penale rilevante in caso di violazione del patto di non concorrenza.
Il Tribunale di Milano aveva rigettato le domande dell’impresa sostenendo che il patto di non concorrenza fosse da considerarsi nullo in quanto il corrispettivo non era determinato o determinabile.
A fronte della nullità del patto il Tribunale aveva condannato il dipendente a restituire al datore di lavoro, al netto, gli importi ricevuti a titolo di corrispettivo del patto di non concorrenza.
Il lavoratore proponeva appello e la società proponeva appello incidentale.
Normativa
L’art. 2105 afferam “è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo. La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi”.
La giurisprudenza di legittimità è da tempo ferma nello statuire in via generale che al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza, occorre osservare i seguenti criteri: a) il patto deve avere forma scritta ad substantiam; b) il patto non deve necessariamente limitarsi alle mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto, ma può riguardare qualsiasi prestazione lavorativa che possa competere con le attività economiche svolte dal datore di lavoro; c) non deve essere di ampiezza tale da comprimere ogni potenzialità reddituale; d) quanto al corrispettivo dovuto, il patto non deve prevedere compensi simbolici o manifestamente iniqui; e) la durata non superiore a 5 anni, se si tratta di dirigenti, e a 3 anni negli altri casi.
Quanto al corrispettivo del patto di non concorrenza l’orientamento giurisprudenziale è incerto, giacché secondo un primo orientamento il corrispettivo del patto di non concorrenza può essere erogato anche in costanza di rapporto per una durata corrispondente alla durata del rapporto di lavoro e per altro orientamento ciò sarebbe in contrasto con la determinabilità del corrispettivo.
Quindi secondo alcuni giudici il patto di non concorrenza dovrebbe prevedere, a pena di nullità, un corrispettivo predeterminato nel suo preciso ammontare, al momento della stipulazione del patto, giacché è in tale momento che si perfeziona il consenso delle parti, e congruo rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore in quanto costituisce il prezzo di una parziale rinuncia al diritto al lavoro costituzionalmente garantito; Viceversa altro orientamento sostiene che la previsione del pagamento di un corrispettivo del patto di non concorrenza in costanza del rapporto di lavoro introdurrebbe una variabile ontologicamente aleatoria ed indeterminabile ex ante, legata alla durata del rapporto, mentre d’altro canto.
Secondo tale differente orientamento dall’interpretazione in via sistematica degli artt. 2125 e 1346 cod. civ., ne conseguirebbe che “operano su diversi piani la nullità del patto di non concorrenza per indeterminatezza o indeterminabilità del corrispettivo che spetta al lavoratore, quale vizio del requisito prescritto in generale dall’art. 1346 c.c., per ogni contratto, e la nullità per violazione dell’art. 2125 c.c., laddove il corrispettivo “non è pattuito” ovvero, per ipotesi equiparata dalla giurisprudenza di questa Corte, sia simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato”.
Conclusioni
La sentenza prende posizione rispetto agli orientamenti espressi dai precedenti arresti registrati negli ultimi anni. In dettaglio, la Corte d’Appello meneghina sposa le conclusioni già espresse dalla citata sentenza della Suprema Corte 5540/21, giungendovi – tuttavia – per vie interpretative inedite ed alternative.
Secondo la Corte Territoriale “Il meccanismo di quantificazione richiede quindi il compimento di una semplice operazione matematica, ed esso risulta altresì coerente rispetto alla ragione economico- giuridica del patto. Risponde infatti alla salvaguardia dei contrapposti interessi delle parti il prevedere che l’entità del compenso aumenti all’aumentare della durata del rapporto di lavoro, posto che alla maggiore durata del rapporto di norma corrisponde un maggiore know how del prestatore di lavoro (e quindi un maggiore interesse aziendale a che questi non operi in concorrenza con l’ex datore di lavoro) oltre che, non di rado, una maggiore difficoltà di ricollocazione del prestatore in settori diversi da quelli in cui il medesimo ha svolto a lungo la propria attività”